È questo un lavoro?

di Adriana Nannicini

Milano aprile 2014

“Ciao, come sai devo scrivere un articolo sul multitasking e le donne. Mi hanno detto che hai fatto una ricerca su questo, ma un po’ particolare, fra le operaie…mi racconti perché loro, come mi hanno detto, non accettano il multitasking?”
Mentre cerco parole e toni per rispondere a chi va giù con l’accetta in un mondo che ormai a me appare delicato e ricco di sfumature, rido. Ancora queste parole umbrella, ancora una trappola per le donne e le prime a caderci sono, come sempre, le giornaliste (oddìo, non vorrei , ma insomma, vado anch’io di accetta).
Provo a spiegarle “polifunzionalità e polivalenza” e dirle che “no, non è multitasking” e chiuderla lì.
Perché anche lei sta lavorando, di corsa, davanti a uno schermo, stringendo un telefono tra spalla e mento.

Osservare il lavoro degli altri è il mio lavoro.
E’ un lavoro questo? e che faccio? Prodotti, risultati, ma anche gesti, pensieri, respiri. Ricerca, consulenza, dunque riunioni, colloqui, documenti da scrivere, da leggere, da copiaincollare. Ogni volta un processo, una sequenza disordinata che spero diventi produttiva, ogni volta un’incertezza.
Stasera provo ad osservare me che osservo.
Dieci anni dopo la prima volta che provai.

In questo ultimo anno da ricercatrice per conto del sindacato, il mio lavoro diventa la storia di un innamoramento.

Un viaggio in Italia, come altri prima, ben più nobili e colti.
Un viaggio nelle sedi sindacali delle regioni, insieme ad una funzionaria nazionale giovane, appassionata delle donne che lavorano e portata alle chiacchiere, comprese quelle inutili che tessono la tela tra noi due.
Saliamo e scendiamo da treni, frecce o regionali che siano, da aerei che planano sul mare di Sardegna o di Napoli. Giù e via all’appuntamento.
Storie di 54 incontri, 60 delegate , e forse più donne e uomini contando anche le altre funzionarie, quelle che ci presentano, con cui si va dopo a bere un caffè, a mangiare perché l’ospitalità conta.
60 delegate, 54 ore di registrazione. Una quantità enorme di colloqui per una ricerca qualitativa. Un committente curioso, una modalità inusuale per loro, un numero che per latri sembrerebbe eccessivo.
Ogni delegata che incontro è per me una scommessa: ho poco tempo per guadagnare quel tanto di fiducia perché abbia voglia di rispondere alle mie sollecitazioni e domande accettando di far divagare i pensieri nella mente, di non sintetizzare, di non stringere, di non fare presto.
Ho chiesto nel progetto un’ora di colloquio. è un sacco di tempo nelle loro abitudini. I primi incontri anche io sono più titubante a sollecitare. Registro e prendo appunti e penso, da subito, che devo immaginare questa volta un processo di lavoro che ho, sì, studiato e letto, ma non più recentemente. Lavoro alle macchine in linea, in fabbrica.
Lavoro operario da far raccontare, individuare i dettagli, avvertire le differenze tra una fabbrica e l’altra, tra una linea ‘moderna’ e una ormai vecchia. Tra un sistema di produzione e l’altro. Alcuni nomi li conosco Barilla, Campari, Ferrero. Altri sono nomi aziendali e non commerciali e io non so.
Tutti i colloqui avvengono in un ufficio, senza foto, senza oggetti, solo una conversazione. E allora che sia. Guardo la donna seduto al tavolino con me, ogni incontro, ogni città e regione, una fabbrica, un ufficio o laboratorio di azienda diversi. E mentre seguo la traccia di ricerca concordata con la segreteria accumulando dati e rappresentazioni, mi innamoro.
Perché una ha inventato un part time verticale e notturno nel we che le consente una paga pari a quella full time. Certo la vita sociale è men che ridotta. Certo lo sa. E lei decide.
E quelle altre, l’emiliana e la piemontese, over 50, magari anche quasi60 che ben conoscono gli impianti all’avanguardia elettronica e meccanica su cui lavorano “Quale rapporto ci sarà tra qualità ed età elevata? Sarà difficile star dietro a innovazioni tecnologiche” e lo sanno, ben di più e meglio di Fornero, e vogliono la qualità dei prodotti, ma vogliono la loro vita di donne un po’ anziane, il desiderio “della mente libera”.
Perché..” Sentirsi lavoratrici come una parte dell’identità femminile, soprattutto non unica, solitaria e monolitica, soprattutto non lavoratrice secondo un unico modello, un unico contenuto professionale. Accanto a questo ‘sentirsi’ si affianca il ‘sentirsi donna, il sentirsi figlia, madre, amica, magari impegnata nelle reti di cittadinanza territoriale, forse affascinata da una vita e carriera sindacale…’ non mancano a queste donne le identità da vivere, quello che è sempre più difficile e desiderato è come integrarle, viverle tutte, farne un patchwork ove una non sia ad escludere lo spazio dell’altra. “
Mi innamoro della forza che credo di intuire sotto la depressione di una donna non tanto giovane, e neppure vecchia, che spesso è in malattia. E medicine e tristezze. Lei a casa mantiene così un fratello disabile e un padre invalido. E va a lavorare più che depressa. E viene anche fare un’intervista!
La più giovane che incontro, non ancora 30anni, bella come il sole i capelli ricci biondi e i jeans stretti, sorride e ha modo di entusiasmarsi per la “bellezza” delle macchine e il processo produttivo “ pulito, profumato!” per l’ordine e l’igiene, il piacere di lavorare in un ambito dove ci sono più diritti, proprio perché è un mondo “più moderno” del magazzino in campagna dell’azienda precedente.
Ognuna una storia, ognuna una versione diversa del rapporto con la macchina. E questa è la sorpresa che ci offrono: scartando dalla traccia e dagli obiettivi di ricerca che non lo prevedono ( altro è all’inizio il focus per il sindacato, che invece accetterà lo spostamento) le operaie dicono del rapporto con le macchine.

Inaspettato perché non previsto esplicitamente, ma esplicitamente ricordato, esemplificato, mostrato.
Rapporto fatto di luci ed ombre, di fatiche quanto di piaceri suscettibili di interesse.
Nella visione che voleva essere “neutra” del luogo del lavoro, la fabbrica era a misura di “maschile”: forza fisica, tempi e tipologia di relazioni. Alle donne che vi entravano era richiesto di adattarsi, di assumere quel comportamento anche come propria misura. Nel cambiamento avvenuto nel corso delle ultime decadi dal punto di vista della tecnologia anche la relazione con le macchine tende ad apparire, viene reso esplicito, non è più come prerogativa maschile? L’espressione di un interesse per il lavoro specifico con le macchine non rischia più di diminuire la femminilità dei corpi di donne e ragazze?
Il rapporto con le macchine: intervenire, riparare, ma soprattutto esercizio di decisioni, costante sollecitazione in alcune fabbriche più evidente e mostrato. Decisioni anche a livello micro, che sono relative a: percepire e riconoscere uno scostamento di ritmo, di accumulo di scarti etc, riconoscere necessità di intervenire, stoppare o/e chiamare manutenzione e/o intervenire sulla base delle proprie conoscenze. Anche a rischio di infortunio non coperto e rischio di danneggiamento attribuito. Rischio che alcune sono disposte non solo a correre, ma rivendicano come propria capacità e conseguente necessità di intervento riparativo.
Interesse per la dimensione meccanica, elettronica, per possibili conoscenze da acquisire, per possibilità di esercitare autonomia controllo non solo di sé, ma della macchina e dunque della linea intera. Capacità tecnica, potere di “far andar” direttamente esercitato. Capacità tecnica derivata da maggior pazienza, da velocità nell’intervenire. “ prendere la chiavi, aprire il quadro elettrico, metterci le mani, girare gli interruttori, per me è naturale, ho una formazione tecnica “
Il legame con “la mia macchina”, ”la mia collega” portano a fare tutt’uno con postazione/macchina e collega.

La mia fatica lavorativa comincia dopo, a casa, fatica solitaria e in dialogo solo con me stessa e le registrazioni. Quando dal riascolto delle 60 e più ore di audio devo elaborare un rapporto. Non un resoconto pedante e pedissequo, ma un’elaborazione che mantenga traccia degli incontri, che valorizzi e renda più visibili e magari anche concettualizzi….senza approssimare, senza travalicare, prendendo un rischio interpretativo da parte mia ma che eviti ogni manipolazione.
Già.
Accade così, come altre volte: il tavolo dove appoggio il mac si impolvera di numerosi strati, le tazze di caffè restano lì dove le metto un attimo, continuamente si rompe l’argine che separa lavoro e vita, dilagano i tempi della scrittura nelle ore notturne. Carta, foglietti, post it, scritti, corretti, stampati, cancellati, annotati con penne di vari colori. Pile di versioni ammucchiate secondo un calendario di ipotesi.
C’è la finestra, grande come tutta la parete, aperta sul cielo e la città distante e se guardo fuori non sono più parole che debbono prendere forma sullo schermo, (e sulla carta perché io sono old fashion, solo lì vedo le frasi e i pensieri) ma sono di nuovo loro, “le mie donne”. Le racconto e riracconto.

Il libretto pubblicato, lo presento in una sala piena di sindacalisti uomini e donne, quelli ben attenti a queste, le segretarie della categoria sono donne.
La giornalista che modera mi chiede una storia:
“Sant Angelo dei Lombardi dopo il terremoto, l’azienda apre un sito anche lì, lei fa un colloquio per entrare come operatrice, un colloquio tecnico, era diplomata di istituto tecnico, abituata a stare con compagni maschi… figlia di un padre fiero di lei… ha chiesto di fare l’avviamento domenicale notturno della linea e al principio le dissero di no. Perché non c’era una divisa adeguata e “poi i tuoi compagni di lavoro?!?” ma siccome erano i suoi compagni da lunedì a sabato lei ottenne di fare, prima donna della fabbrica, l’avviamento domenicale. Non necessariamente con la solidarietà delle sue compagne, giustamente la scelta di una non combacia con quella di altre, e una scelta che rischia di mutare in ‘ordine’ non è più tale. Non ha avuto possibilità di fare manutentore e oggi non potrebbe più, la tecnologia ha operato dei capovolgimenti, farebbe il triplo del lavoro di aggiornamento, non si recupera più, ci vuole occhio giorno per giorno, Anche se lo sa che stare sempre lì è monotono e ripetitivo e la curiosità per una macchina nuova è uno stimolo per non essere -schiave della monotonia-”
Lei era in sala, ha percorso il corridoio tra le file di sedie, ha fatto cenno da sotto il palco, sono scesa, ci siamo commosse.
Non era più la storia di un viaggio in Italia ma la storia di un viaggio da lavoro ‘intellettuale’ verso il lavoro manuale, operaio.
milanoFoto di Roberta Villa

vincenzo moretti

Sociologo e Narratore. Sono nato nel 1955 da Pasquale, muratore e operaio elettrico, e Fiorentina, bracciante agricola e casalinga. Desidero quello che ho e continuo ad avere voglia di cambiare il mondo.

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